Il Diario di tunia

Chiaroscuro, un rosato di Cabernet Sauvignon

8 novembre 2016

 

Il vino rosato (in poche parole qui) è stato un argomento lungamente dibattuto dentro Tunia: chi spingeva per farlo, chi si opponeva. Alla fine ha vinto il fronte del sì ed è nato il Chiaroscuro, la nostra libera interpretazione di questa tipologia di vino.

Abbiamo scelto il Cabernet Sauvignon (col Sangiovese era troppo facile…), e abbiamo effettuato una vendemmia ad hoc quando però l’uva era arrivata a perfetta maturazione, per evitare aromi troppo erbacei sicuramente presenti nel Cabernet un po’ acerbo.

Le uve sono state pressate e il liquido è stato separato immediatamente dalle bucce. Neanche un minuto di macerazione. Nonostante questo il mosto era molto colorato, perché le bucce mature hanno comunque ceduto un po’ del loro intensissimo colore.

La fermentazione si è svolta come sempre solo con lieviti indigeni, in acciaio e senza controllo della temperatura. L’affinamento è stato di qualche mese in tonneaux di terzo passaggio.

Il risultato è stato un rosato un po’ scuro e piuttosto ricco sia al naso che in bocca. Forse la soluzione ideale per chi non riesce a rinunciare, neanche d’estate, ad un bicchiere di vino rosso.

 

 

Sottofondo: orange rifermentato col fondo. Che volete di più?

 

Era già da qualche anno che l’idea della bolla ci girava per la testa e così, provando e riprovando, è nato il Sottofondo.

Abbiamo deciso quale sarebbe stata la nostra interpretazione della bolla: un metodo tradizionale (in parole semplici qui), senza sboccatura e quindi con il fondo .

L’uva di partenza è come sempre Trebbiano; d’altra parte quella abbiamo e ci piace anche molto.

La raccogliamo presto, a fine agosto, per avere una buona acidità e la facciamo fermentare senza bucce, in acciaio.

A fine settembre facciamo un’altra vendemmia con l’uva matura, e questa volta le bucce ce le lasciamo eccome, per circa un mese.

Queste due basi, ferme, non chiarificate e non filtrate, le lasciamo separate fino a febbraio, quando otteniamo il mosto dalle uve che avevamo messo ad appassire in cantina. A questo punto è tutto pronto per l’imbottigliamento e la seconda fermentazione, quella in bottiglia.

Assembliamo tutto nelle giuste proporzioni: tanta freschezza e acidità (dalla prima vendemmia), un po’ di corpo, struttura e colore (dalla seconda), infine zuccheri, lieviti e sentori di appassimento (dalle uve appassite). Il mix perfetto per andare in bottiglia ed aspettare che i nostri operosissimi lieviti facciano il loro dovere.

Dopo qualche mese, ecco le bolle. Finissime, quasi impercettibili, molto delicate.

La scelta di non effettuare la sboccatura è in linea con il non fare né chiarifiche né filtrazioni (per questo troverete ancora il tappo corona). Riteniamo che sia una scelta di maggiore qualità: è legata all’idea di vino vivo, che continua ad evolvere anche grazie alla presenza dei lieviti o di quello che di essi resta dopo un po’ di tempo in bottiglia.

 

 

Come si fa (a grandi linee) un vino rosato

5 novembre 2016

 

Per produrre un vino rosato ci sono (con tutte le possibili sfumature) due strade:

1) si effettua una specifica vendemmia di uve a bacca rossa in cui ci sarà un contatto breve o brevissimo tra liquido e bucce. Di solito la raccolta è un po’ anticipata rispetto a quella che si fa per il vino rosso, sia per dare maggiore acidità e freschezza al rosato, sia perché in questo modo si fa un diradamento alla pianta che così potrà far maturare al meglio i grappoli rimasti

2) si effettua un salasso sulla vinificazione del vino rosso, cioè, dopo qualche ora dalla pigiatura, quando il liquido e le bucce si sono separati perché è iniziata la fermentazione e il mosto inizia a diventare colorato, si toglie una parte del liquido che finirà di fermentare senza bucce e andrà a produrre il rosato.  Tale pratica può essere utile anche per rendere più concentrato il vino rosso: in questo modo, infatti, aumenta la proporzione tra bucce e mosto e quindi la presenza di sostanze aromatiche, coloranti e polifenoliche sarà maggiore.

Sfatiamo così un mito: il rosato non si ottiene miscelando in varia misura vino rosso e vino bianco. Così facendo si ottiene per lo più una schifezza ma, se volete farlo a casa vostra, fate pure. Un produttore di vino o un ristoratore non possono farlo, è una pratica illegale!

Come si fa (a grandi linee) un vino spumante

 

Come si fa (senza entrare troppo nel tecnico) un vino con le bolle?

Esistono diverse possibilità (ognuna, ovviamente, con delle varianti)

- metodo tradizionale o classico, in cui si ha una rifermentazione in bottiglia
[quello storico e più artigianale]

Si parte da un vino fermo (solitamente chiarificato, stabilizzato e chi più ne ha più ne metta) a cui si aggiunge una componente zuccherina e dei lieviti, per ottenere la cosiddetta presa di spuma, cioè si fa ripartire la fermentazione in bottiglia.  Quest’ultima viene sigillata con un tappo corona.  A questo punto la fermentazione in un recipiente chiuso (la bottiglia) determina la formazione di bolle di anidride carbonica che danno l’effervescenza. Dopo un periodo variabile viene effettuata la sboccatura (o dégorgement, per dirla alla francese) per eliminare i residui dei lieviti ed ottenere così un vino pulito e brillante. Il tappo corona viene sostituito con un tappo di sughero.

- metodo Martinotti – Charmat, in cui si ha una rifermentazione in autoclave (serbatoio sotto pressione)
[quello più industriale]

Si parte sempre da un vino fermo, anche qui quasi sempre chiarificato etc., etc., ma la seconda fermentazione, dopo aver aggiunto anche qui zuccheri e lieviti, non avviene in bottiglia, ma in grandi contenitori pressurizzati. L’imbottigliamento avviene solo dopo che i lieviti hanno portato a termine la seconda fermentazione, grazie a delle macchine imbottigliatrici isobariche, in modo da non perdere l’effervescenza.

-metodo ancestrale (in bottiglia) 
[molto usato nella produzione tradizionale del Lambrusco, e anche di alcuni Prosecco]

La fermentazione, in questo caso, è solo una. La prima parte avviene in serbatoi normali, non sotto pressione; quando c’è ancora un po’ di zucchero nel vino, quest’ultimo viene imbottigliato per permettere la formazione delle bollicine. Terminata la fermentazione si può procedere o meno alla sboccatura.

La potatura 2015

11 febbraio 2015

Finalmente è arrivato un po’ di freddo…(a parte oggi che abbiamo toccato i 16 ° C !!!)

Tra una fiera e l’altra abbiamo iniziato a potare.

Siamo partiti dal Cabernet Sauvignon, dove ormai abbiamo completato l’opera di trasformazione da cordone speronato a guyot,

Cabernet guyot

 

per passare poi al vecchio vigneto di Sangiovese.

Sangiovese cordone speronato

 

A seguire sarà il turno del nostro adorato Trebbiano rosa

Trebbiano rosa

 

e, per finire, toccherà al Vermentino.

Vermentino

 

Quiz:

I quercioli tra una vite e l’altra sono voluti, nella speranza di trovare qualche tartufo e incrementare il business di Tunia o, forse, non riusciamo a liberarcene? :-)

Ma il vostro è un vino senza solfiti?

23 luglio 2014

Questa è la domanda che ci sentiamo rivolgere più spesso a fiere e degustazioni. La risposta è “non del tutto”, ma la questione ovviamente non è così semplice.
Chi sceglie un vino senza solfiti lo fa perché vuole un prodotto salutare, ma in realtà l’unica garanzia che ottiene è quella di avere un vino privo di anidride solforosa, non di altre sostanze “estranee”.
Il problema è tutto nelle norme sull’etichetta. Nel mondo vinicolo la discussione è accesa, proviamo a riassumerla.

A cosa servono i solfiti?

Hanno una funzione antimicrobica e antiossidante. Si possono aggiungere in alcuni momenti della vinificazione per eliminare vari microorganismi e in fase di imbottigliamento per evitare che l’ossigeno, che continuerà a passare attraverso il tappo di sughero, ossidi il vino. Per approfondimenti vi consiglio la pagina di Wikipedia.

La normativa europea

I solfiti

Il disciplinare europeo stabilisce questi limiti al livello di anidride solforosa:
Vino rosso
Convenzionale : 150 mg/L – Biologico: 100 mg/L
Vino bianco
Convenzionale: 200 mg/L – Biologico: 150 mg/L
Se l’ anidride solforosa è inferiore a 10 mg/L si parla di vino senza solfiti. Piccole quantità di solforosa, infatti, sono prodotte naturalmente dai lieviti durante la fermentazione.

Il disciplinare tiene conto delle necessità di produttori di zone climatiche molto diverse; francesi e tedeschi, per esempio, tendono ad usare molti più solfiti di noi Italiani.

Di fatto la normativa per il vino biologico, con le restrizioni ridicole che ha, invece che essere garanzia di prodotti più genuini non fa altro che far sembrare “meno chimici” molti vini convenzionali.

Pratiche e prodotti permessi nella vinificazione

Non è solo questione di vino senza solfiti. Ecco tutti gli ingredienti consentiti.

Immagine tratta da La sorgente del vino

L’attuale disciplinare per il vino biologico, approvato in sede europea, permette l’aggiunta di moltissimi ingredienti. Quelli consentiti nella produzione convenzionale sono anche di più e molti sono etichettati come “additivi che possono provocare reazioni allergiche in soggetti predisposti”.

Il vino naturale, pur non essendo ufficialmente disciplinato, prevede la fermentazione alcolica spontanea e la sola aggiunta di anidride solforosa (in bassi quantitativi).

L’etichetta

Sulle etichette dei vini è OBBLIGATORIO comunicare la presenza di solfiti.
Sulle etichette dei vini sarà presto OBBLIGATORIO comunicare la presenza di caseina e albumina, in quanto allergeni.
Sulle etichette dei vini è VIETATO scrivere la lista degli ingredienti. Pena una multa salata e il ritiro delle bottiglie dal mercato.

Questa norma ha contribuito a demonizzare i solfiti (e probabilmente avverrà lo stesso anche per caseina e albumina) senza rendere consapevole il consumatore del fatto che il vino può contenere molti altri ingredienti.

Il paradosso

Poniamo quindi che un produttore convenzionale voglia scrivere sulle sue etichette vino senza solfiti: gli basterebbe sostituire l’anidride solforosa con ingredienti e pratiche enologiche forse anche meno salutari ma per i quali non esiste nessun obbligo di indicazione in etichetta. Al consumatore meno esperto sembrerebbe comunque un vino più genuino di uno naturale che invece contiene solo una minima quantità di solfiti, per garantire la conservazione, e la deve dichiarare sull’etichetta.

Pensateci la prossima volta che chiedete un vino senza solfiti.

Dare nomi ai vini: se vi sembra facile…

16 luglio 2014

Aprite una società agricola, dicevano. Siete giovani sarà una passeggiata, dicevano. Ma nessuno ci aveva avvertito di quanto sarebbe stato difficile dare nomi ai vini.

Lo so, stiamo parlando di diversi anni fa, ma di recente ci hanno chiesto di spiegare il perché dei nomi dei vini di Tunia e, dopo averlo fatto, per l’ennesima volta, a voce, ci è venuto in mente che forse valeva la pena scriverlo…
Proviamoci.

Dare nomi ai vini

Immaginatevi come stavamo: lanciate senza freni verso una nuova avventura, con chiari in testa i punti fermi dai quali non volevamo prescindere.
Avevamo già affrontato (e superato) il problema del nome dell’azienda. La volevamo legata al territorio, un omaggio alla città toscana che ci ospitava. Alla Chimera, però, l’omaggio l’avevano già fatto in molti, dalle librerie alle gelaterie. Scegliemmo quindi il padre del pantheon etrusco. E Tunia fu.

E a quel punto ci illudevamo che sarebbe stato tutto in discesa: bastava scegliere i nomi degli altri dèi per i vini. Semplice no?
No. Perché le divinità etrusche, oltre a essere avvolte da un affascinante quanto poco pratico alone di mistero, hanno anche nomi molto brevi e poco adatti a dei vini.

E quindi niente, prossima idea. Decidemmo di rimanere in ambito etrusco: le famose ceramiche sono tutte ben catalogate, usiamo quelle. Cerchiamo il nome della coppa da vino: skyphos. Mmm, no, dopotutto forse non era un’idea così geniale.

E quindi?
Ormai le idee languivano e il vino era già in produzione.

Come spesso accade fu il caso a decidere per noi.
Durante un giro in cantina, mentre Francesca ci aggiornava, noi altri due soci (enologicamente ignoranti) notammo scritto su un serbatoio Fiore e Chiaro e fu subito una cascata di complimenti: “Ma brava Francesca! Che bel nome hai trovato! Perfetto per un bianco!”. Salvo poi sentirci dire che Fiore è il primo vino che viene tolto dal serbatoio durante la svinatura, senza passare in pressa, e Chiaro è la dicitura per il vino travasato.
E peraltro in quel serbatoio c’era del vino rosso…

Comunque, quale fosse la ragione, ormai quel nome ci era entrato in testa e fu così deciso che il nostro bianco si sarebbe chiamato Chiarofiore.
Che peraltro si sposava bene con Chiassobuio che è il nome del torrente che delimita la vigna, subito preso in prestito per il nostro Sangiovese.

A quel punto ci mancava solo un nome, per l’altro rosso, il Cabernet Sauvignon. Come resistere alla tentazione di rimanere sulla stessa linea?! Cercavamo ancora una parola composta…e così, dopo lunghe elucubrazioni, a fianco del Chiasso (rumore, ma anche vicoletto) Buio, è arrivato il Canto (melodia, ma anche angolo) Moro.

E questa è la storia dei nostri nomi. Ora ci pensate voi a spiegarla agli stranieri?

Cantomoro: un cabernet sauvignon 100%

8 luglio 2014

100% Cabernet Sauvignon: Cantomoro è a pieno titolo tra i  vini pregiati italianiCantomoro è il piccolo di famiglia, frutto dei nostri vigneti più giovani.

Nella nostra vigna ci sono 4 ettari di Cabernet Sauvignon, impiantati nel 2005 da un ottimo clone da vivai francesi. Queste uve, abituate ad altre temperature, sembrano essersi adattate benissimo anche al nostro clima e i risultati lo provano.

La vinificazione è la stessa pensata per il Chiassobuio: metà in acciaio e metà in tini di rovere da 25 hL. L’affinamento, invece, è di qualche mese più lungo: 24 mesi tra tini di legno, serbatoi di acciaio e tonneaux da 3hL, e poi almeno 12 mesi in bottiglia. Per questo oggi possiamo offrirvi solo un’annata, quella del 2009.

Un’annata buonissima, però ;) Grazie alla (felice) scelta di aver lasciato le uve sulla pianta molto a lungo, abbiamo ottenuto note fruttate perfettamente armonizzate con un leggero erbaceo e sentori balsamici.

Tra l’altro, sono appena arrivate le analisi di VinNatur! Come è avvenuto per Chiassobuio, alla manifestazione a Villa Favorita, i responsabili dell’associazione hanno scelto una bottiglia a caso su cui analizzare l’anidride solforosa e ricercare i principi attivi presenti nei preparati di sintesi usati nel vino.

AnalisiCantomoro

Anidride solforosa solo 19 mg per litro (ricordiamo che i limiti per il vino rosso biologico sono 100 mg/L) e tutti i principi attivi inferiori al limite di quantificazione (in parole povere assenti!).

Due parole su Chiassobuio

18 giugno 2014

tunia_chiassobuio_09Chiassobuio è il rosso anziano di Tunia. È il Sangiovese dei vigneti vecchi, quelli che abbiamo voluto conservare e coccolare nonostante al nostro arrivo sembrassero il castello della Bella Addormentata dopo il passaggio di Malefica.

Di Chiassobuio si trovano già due annate, 2008 e 2009.
Le uve del 2008 ci sono state donate dai precedenti proprietari per fare qualche prova e un po’ di pratica in attesa della vendemmia successiva. E non per vantarci, ma direi che le prove son venute proprio bene!
L’annata calda con precipitazioni sotto la media aveva portato a maturazione un’uva ricca di zuccheri e polifenoli che ci ha consentito di produrre circa 5000 bottiglie di un vino potente con ottime possibilità di invecchiamento.

L’anno successivo è stato invece molto diverso, meteorologicamente parlando. Piogge abbondanti e un’estate fresca ci hanno dato un’uva non troppo concentrata, e i 36 mesi di affinamento (24 in tini rovere di Slavonia e almeno 12 in bottiglia) ci hanno regalato un vino più elegante che strutturato, tannini non invasivi e un’ampia gamma di aromi che promette di svilupparsi ulteriormente nel tempo.

“un vino fresco, profumato, non troppo carico in bocca. Un Sangiovese non aggressivo, piacevole da bere anche giovane”, per dirla con il lessico familiare di noi enologi.

Di quest’annata abbiamo anche le analisi effettuate da VinNatur su campioni prelevati durante la fiera a Villa Favorita. Risultati perfettamente in linea con le nostre aspettative: nessun principio attivo riscontrato (o, per essere precisi, “inferiori al limite di quantificazione”) e solforosa totale di 25 mg/L (il limite per l’etichettatura biologica per i vini come questo è di 100 mg/L).

 

Analisi VinNatur su Chiassobuio 2009

 

 

La verità, dobbiamo ammetterlo, è che siamo molto fieri dei nostri Chiassobuio.

 

…e dopo la volpe…

2 agosto 2013

Vi ricordate il nostro ospite di qualche tempo fa?

 

Dopo di lei … ecco un ospite di tutt’altro genere!

Con il prezioso contributo di babbo Luigi – entomologo per hobby - vi presentiamo il Sigaraio della Vite.

Passeggiando in questo periodo nel vigneto si possono notare alcuni strani “barilotti ” costruiti con foglie di vite arrotolate.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il responsabile di tanta perizia e’ un piccolo coleottero della famiglia dei Curculionidi:

il  Bysticus betulae (Linneo, 1758), che è solito arrotolare foglie di varie piante come la Betulla, da cui il nome, il Pioppo e non da ultimo la Vite, motivo per cui e’ noto come Sigaraio della Vite.

 

 

 

Gli adulti che hanno svernato riprendono l’attività in primavera a partire da Aprile. Le femmine, dopo l’accoppiamento, si scelgono una foglia o un gruppo di foglie – non eccessivamente sviluppate - e,  dopo averne inciso il picciuolo in modo da rallentare ma non bloccare il flusso della linfa, attendono che la foglia appassisca.

Poi, con l’aiuto del rostro e delle zampe, iniziano ad arrotolare la foglia su se stessa facendo opportune incisioni e incollando il tutto con un liquido adesivo che fuoriesce dall’addome.

Nel giro di qualche ora il sigaro e’ completato e la femmina vi depone dentro 5/6 uova.

Instancabile la femmina continua l’opera ingegneristica fino a riuscire a costruire una trentina di sigari.

Il barilotto rimane appeso fino a che a causa del vento od altro cade a terra e nel giro di una decina di giorni nascono piccole larve che si nutrono dei tessuti interni delle foglie, appassite ma ancora verdi.

Sul finire dell’estate nascono gli adulti che rimangono nell’interno per svernare ed uscire alla primavera successiva per un altro cantiere.

L’ animale adulto è lungo da 6 a 9 mm e presenta una splendida colorazione metallica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Generalmente il danno provocato da questi insetti è  abbastanza contenuto da non presentare un problema; da noi questi piccoli gioielli sono i benvenuti, con la speranza che non ci siano troppi invitati alla festa!